Succede che i pensieri pretendono di uscire, senza passare dalla voce, ma infilarsi direttamente nella visibilità. 

Anche questo diventa un gioco serio.

Riuscire a parlare e comunicare attraverso l’Arte, per me significa aver saputo cogliere e trasformare il viaggio che la vita fino ad ora mi ha concesso di fare. E così guardo il mondo in cui vivo, ciò che mi circonda e circola dentro attraverso i sensi, e lo impasto del mio vissuto, del mio pensiero, della mia anima per farlo rinascere attraverso un’immagine, un tratto, una pennellata, una parola. Gioia, dolore, sesso, religione, vita e morte, vengono messi in luce dai miei click,  dagli acrilici, pennarelli o quant’altro. Con l’Arte gioco, soffro, vivo le mie catarsi a prescindere da ogni situazione e risultato. E’ la mia libertà.

CONDANNA

Ogni tanto mi scordo che esisto

e succede che mi lascio vivere

trasportata dalla corrente delle emozioni

dai sentimenti

dai doveri

dall'Arte.

Poi, capita che passando davanti a uno specchio

un'occhiata fuggevole

e una paura improvvisa mi fa fermare e tornare indietro

a riguardare quell'immagine che non riconosco più.

E non sono le rughe i capelli sbiancati il colorito pallido

a rimandare un'altra me:

è l'affetto che ho scordato di elargirmi.

Il calore che ho mancato di darmi

il tempo che non mi sono concessa

il perdono che non mi sono offerta

il religioso ossequio a questo tempio che io sono

ora mi condannano a risarcirmi di quotidiano amore.

 

 

02 feb 2014       

Autobiografico:

Via Venezia n. 12

A volte capitava che mi svegliassero nel cuore della notte, mia madre mi

prendeva in braccio e mi cambiava di letto. A stento aprivo gli occhi, e subito

tranquillizzata da quelle braccia forti dolci e conosciute, li richiudevo

per ricadere nell’intenso sonno di bambina.  Altre volte spostavano

direttamente il mio lettino, e io quasi non mi accorgevo del cambio di

posizione. Poi c’erano le notti di tempesta, con il vento che ululava

come i lupi della Sila, e la pioggia scendeva come un torrente lungo la via,

e allora nella stanza la frenesia aumentava ed era impossibile non svegliarsi,

tra letti spostati di qua e di là, pentole e bacinelle che erano  posti in giro

quasi ovunque e il borbottio continuo di mia madre. Era un rincorrere di gocce

acchiappate e gocce che diventavano piccoli laghi sul pavimento. E’ successo che

in quelle notti agitate dentro e fuori di casa, mi ritrovassi con i piedi per terra, e mai

come in quei momenti l’acqua mi è sembrata tanto fredda, ghiacciata.

Con l’arrivo del sole tutto tornava tranquillo, anche mia madre sorrideva.

A mezzogiorno, puntuale sei giorni su sette, a tavola era già tutto pronto per il

pranzo. Papà rientrava, ai piedi i suoi scarponi da lavoro, che a me

sembravano enormi, consumava il pasto, un caffè caldo, una brevissima pennichella

poggiato con le braccia sul tavolo e poi andava via.

La mia vita di bambina scorreva serena, in quei primi anni sessanta.

Casa nostra era tutto quello che pensavo esistesse al mondo.

Era tutto quello che volevo.

Era la sicurezza, fatta di una camera da letto nella quale si accedeva

dalla porta d’ingresso, un piccolo bagno accanto alla camera, la scala di legno

con annesso un ballatoio che portava al piano di sopra, dove c’era la cucina,

e che poi con il tempo avrebbe ospitato il mio lettino, un balcone,

un tavolato da dove una volta era caduto un serpente intento a divorare un topo.

Mia madre mi raccontava sempre che in quell’occasione aveva avuto paura per me,

che ero ancora in fasce, allora mi aveva sollevato di corsa dal letto e portata da una

vicina, poi preso un masso dal muro di pietre di fronte casa,

era tornata dentro e aveva ucciso il serpente.

La cantina era un luogo buio, per accedervi bisognava scendere i due gradini d’ingresso e due gradoni della via, ed era sempre piena di legna per il camino.

 

Di mio padre ricordo questa borsa in cuoio, invecchiata e scurita dal tempo, che ogni tanto tirava fuori da non so dove e la poggiava sul tavolo. Da dentro prendeva

fogli giganti, con sopra segni e disegni strani. Ora so che erano progetti di case,

a volte di nuove abitazioni altre solo ristrutturazioni.

La mia curiosità di bambina si fermava spesso alla misura di quella carta gigante,

osservando stupita la serietà con la quale mio padre ci si soffermava per lungo tempo.

 

La scritta Via Venezia era stampata ai due estremi della via,

e tante volte noi bambini facevamo a gara a chi arrivava prima da un lato

all’altro correndo, inciampando e cadendo.

Quante ginocchia scorticate, quanti pianti!

Mia madre ci sgridava, poi mi metteva seduta sulle sue cosce e ripuliva le ferite con acqua e alcool. Puntuale le mie urla e i tentativi falliti di scappare.

N. 12 era il nostro numero. Lo trovavo bellissimo e m'incuteva un senso

di mistero. Chissà perché!

 

Ogni tanto i miei genitori litigavano, e non di rado per colpa della casa.

Per quanto mi sforzassi di ascoltare, non riuscivo mai a sentire abbastanza,

ad entrare nel problema, a capire. Però ci stavo male, anche solo nel sentire

la voce di mia madre diventare più dura. Poi vedevo mio padre farle

carezze sul viso…

 

Una notte in cui il cielo buttava acqua senza sosta da ore, capii

perché mia madre si arrabbiava tanto con mio padre. Oltre al fatto strano che l’acqua cadesse sui letti malgrado ci fosse un altro piano sopra la

camera che rimaneva asciutto, lei non si capacitava del fatto che un mastro muratore, con tanto di operai, dovesse avere la casa in quelle condizioni.

“E’ proprio vero - disse – il calzolaio ha le scarpe rotte, il sarto le toppe sul culo e tu la casa che sembra un colabrodo.”

Al solito, mio padre paziente le sorrise, e cingendole con le braccia la vita annunciò che presto avrebbe comprato una casa nuova.

 

Io quella volta mi nascosi in cantina, e piansi.

 

 Racconto:

LA DEA PAROLA

 

6 del mese

 

Prendere una direzione partendo da un punto, da un incrocio. Una stella posizionata sul terreno delle idee, tante punte a indicare ciò che non si vede oltre la luce della partenza. Un alone di buio. Il mistero del circostante. Ogni via potrebbe essere quella giusta, ogni via potrebbe essere quella sbagliata. Il punto è il punto. La domanda è: perché sono qui? perché ci sono? Se me lo chiedo rischio il blocco. Rischio che il mio pensiero non si muova in nessuna direzione. Che è poi possibile? Eppure questo è il rischio. Per esistere devo assolutamente scegliere.

Il punto in cui sono ferma è sabbia mobile, è il nulla che mi assorbe.

Devo scegliere. L’orizzonte non si vede, il Nord non si vede, ai miei lati non si vede. E devo scegliere. Se resto ferma non esisterò. Non certo per la solitudine, quella è parte di me. Se resto nel punto è chiaro che perdo, mi annullo. Dove andare? Verso quale direzione muovermi? Io non ne conosco la via, l’indirizzo, se esiste un punto di arrivo per una nuova ripartenza.

Quasi è una tentazione rimanere ferma. Dico quasi mentre già mi sto muovendo. Penso resto, e sto già immaginando un percorso.

Faccio un giro veloce su me stessa, più di un giro, tanti giri. A occhi chiusi. Sono una piccola trottola colorata, di metallo, a tratti di legno e senza colori. Alterno le trottole. Aspetto l’attimo giusto per aprire gli occhi e quella che vedrò davanti a me quella sarà la mia direzione. Pare che così facendo io lasci al caso di decidere al posto mio, e in parte è così. Casuale è il punto esatto in cui mi fermerò, ma in effetti non lo è perché sarò stata io ad aver deciso quell’attimo. Questo girotondo su me stessa è diventato il cardine, il focus della stessa esistenza. Rallento per non perdere l’equilibrio. E se anche lo perdessi che succederebbe? Nulla. Cadrei. Per poi rialzarmi. Ciò che voglio è rallentare e non cadere solo per vedere che ci posso riuscire. Posso cadere o non cadere e le cose non muterebbero. Ma io non voglio cadere perché non voglio cadere.

E’ così.

E quando avrò smesso di girare in tondo, quando avrò aperto gli occhi, quando vedrò la direzione davanti a me, quello che farò sarà andare.

Mentre penso tutto questo, avverto un senso di angoscia.

Ho paura.

Rallento mi fermo apro gli occhi. Vedo il mio orizzonte, buio. Simile a un mare di notte, con un cielo senza stelle. Resto bloccata, ma il mio pensiero invita al viaggio. E io sono il mio pensiero. Con le scarpe in mano, vado.

Immagino nel buio un sole accecante, non un’alba no l’alba non la immagino e non la desidero. Voglio un sole già caldo, potente, che mi bruci la pelle e mi faccia socchiudere gli occhi per puntare lo sguardo verso di lui. E poi il tramonto. Un rosso tramonto di fuoco che sia lo specchio del liquido rosso che mi scorre  nelle vene. Intanto vado. I miei piedi assaggiano bocconi morbidi che si alternano ad altri duri, spigolosi, per poi ritornare su soffici letti. Vivo vedo con i piedi quello che gli occhi riescono solo a immaginare. Vivo.

Ecco un pensiero che non facevo da sempre. Vivo. Ora vivo, immaginando ciò che vivo. Ora vivo cercando di oltrepassare la notte. Ora vivo in un pensiero che è tutto mio. Vivo. Io vivo. Senza conoscerne bene il significato, vivo e ho paura. Cammino e vivo. E non so dove vado. Vivo e non

conosco il fine di questo mio vivere. Vivo e mi fermo a pensare. No, non mi fermo a pensare. I miei pensieri vanno, i miei pensieri vanno. Non sono più al punto di partenza, ora mi sto muovendo con pensieri e azioni. Come ero finita in quel punto? Quando sono finita in quel punto? Chi sono? Perché sono? Se ho idea del sole e ne conosco il potere allora io sono stata.

Vado avanti, a piedi feriti. Vado avanti accavallando idee, pensieri che si sovrappongono. Un viaggio che ha il sapore di un già vissuto, eppure sento che è nuovo. Avverto qualcosa che pesa sullo stomaco, un pianto di bambino sale alle orecchie. Un bambino, dove?  Un bambino nudo dentro di me. Lo vedo e non vorrei. Non so che farci con lui. E mentre lo guardo mi accorgo che il bambino è disteso, sereno, malgrado io continui a sentirne il pianto. Non esiste connessione tra il bambino e il pianto, perché non è lui a piangere. Non è lui, sono io. Lui dorme sereno. Nudo. Dalla pelle liscia. E io piango. Vedo chiaro, illuminato dentro di me. Lo vedo che riposa. Un bambino perfetto!

Lo ammiro, avvolto nella sua luce bianca. Sta bene ed è dentro di me. E io piango e non ne conosco il motivo. Però ora sono cosciente di una cosa, non sono sola. Non viaggio da sola, ho la luce di un bambino bellissimo dentro di me. Sono felice.

Sì, conosco la felicità.

Attraverso il buio con passo fermo, a prescindere dal terreno su cui poso i piedi. Vado. Viva. In compagnia. Vado a scoprire il mondo, i mondi, l’universo dentro e fuori di me.

Cercavo la luce del sole e ignoravo la luce dentro di me.

Cercherò ancora il sole caldo, senza dimenticare i bagliori luminosi di cui sono fatta.

Il mio passo è diventato più leggero, io sono diventata più agile. Quello che ho dentro non è un peso, è una forza, il mio propulsore, e mai dovrò dimenticare la sorgente di luce che è dentro di me. Mai dovrò dimenticare del bambino che è parte di me. Mai dovrò credere di essere nata sola. Io sono viva, accompagnata da infinite forze. Io sono, anche se non so perché sono, so che sono. Ho coscienza di me, di esistere, mentre vado a superare la notte.

 

  

7 del mese

 

Un deserto bianco è dove ora mi trovo immersa. Ancora nessun indizio oltre la sabbia fine sotto ai piedi, sempre nudi. Le scarpe sempre sulle spalle, annodate l’un l’altra. Come sia stato che dal buio sia giunta in questo luogo chiaro non lo so. Forse è lo stesso luogo, da buio ora è illuminato. Un deserto senza cielo. Manca l’azzurro, e io amo l’azzurro. Conosco l’azzurro e stranamente non me ne stupisco. Mi sembra naturale. E mi guardo dall’alto, un puntino in uno spazio  che si fa sempre più grande, immenso, infinito. Mi guardo e mi vedo, quasi invisibile, ma ci sono. Unico punto in questo spazio bianco. Non mi sento smarrita, tutt’altro. Sono una realtà!

Forse devo aspettare che cambi colore, visione. Eppure ho voglia di andare. Fare un passo. Essere passi e lasciare orme dietro di me. Così vado avanti e poi di scatto mi giro e vedo quel gran casino di avanti e indietro, quei segni che ho sparso a disegnare ghirigori, che quasi mi piacciono, quasi mi faccio tenerezza per il lavorio che ho svolto.

Ma è tempo di andare. Camminare.

Sogno il verde. Un verde smeraldo che abbraccia ogni cosa. Ne ho bisogno, come l’acqua. Elementi anch’essi che hanno forma dentro di me. Questo dentro che si espande e mi coinvolge e trascina come una potenza che non voglio domare.

Mi devo dissetare di verde. E vado.

Lascio i segni sulla sabbia, indelebili. Morbida, fine, eppure sostenuta senza la possibilità che un alito qualsiasi ne possa cambiare quella forma data dal mio peso. Così è!

Mi sento leggera intanto che vado. Sono il volo di un petalo che si è staccato da un fiore bianco, sono lo spirito di una farfalla che diventa aria mentre vola. Sto bene, sto così bene che non vorrei mutasse questo stato. Intanto muta il colore dello spazio intorno a me. Diventa di un colore giallo bruno, quel colore che assume l’aria quando c’è in atto un’eclissi: è il mio incontro con l’angoscia. La sento nel punto più alto dello stomaco, ferma come un pensiero fisso. E mi blocca sul posto. Ho perso di nuovo la forza di andare. Sono sul punto di cadere.

  

 

8 del mese

 

Un rumore indistinto e continuo arriva sopra la mia testa. Poi si ferma. Riprende. Non ricordo da quanto tempo è così. Vorrei smettesse. A volte è uno strascicare, più spesso un martellamento, altre volte un boato sommesso, cupo, difficile da definire. Ora pare che qualcosa gratti su una superficie dura come il cemento. Intanto si sgretolano la mia calma e la mia lucidità. Ora è un rullo che va e viene. A volte un cavalcare di metallo che batte su metallo. Lo subisco. Non vorrei fosse così ma lo subisco. Cade qualcosa lontano, e le onde di suono rumore mi arrivano fin dentro le ossa. Uno strazio, insopportabile al mio cervello. Ancora e ancora e ancora rumore sguaiato. Rumore che annichilisce. Mi muovo a fatica, dal punto in cui staziono da non so più quanto. Mi muovo. Torno a sentire il peso del mio corpo, sui piedi che vanno. C’è mistero nei pensieri che si formano, che mi rendono partecipe o forse solo macchina generatrice di essi stessi. Mi turba non capire. Sono l’ingranaggio di un motore? O sono il motore di mille ingranaggi? Così complessa questa mentecorpo da non saper distinguere dove il tutto si amalgama, dove si condensa il nocciolo, dove coesione e unione si saldano e divento io. I miei passi e i miei pensieri sono io. Io. Che esisto. Che occupo un posto in questo universo, finito o infinito che sia, che siamo. Io, che non ho mai pensato prima d’ora tante volte io. E continuo a ripetere io io io solo per avere certezza che io sono. Ma chi sono? Un corpo di materia deperibile, pensieri che elaboro più o meno complessi, e poi? E poi un intreccio di emozioni.

Le emozioni! Quelle cose lì che condizionano i miei passi e i miei pensieri. Posso affermare con certezza che le emozioni sono fuoco e ghiaccio, tormenta e calma esagerata. Esasperano ogni aspetto del cammino e dei pensieri. Ora so che poche volte le emozioni tacciono. No, questo è un pensiero errato. Le emozioni non tacciono mai. Mai.

Intanto il rumore si è placato. Finito. Sparito.

 

Scorgo un albero davanti a me, in lontananza. A passo deciso punto verso di lui e più cammino più la sua forma ingrandisce. A pochi passi è un gigante che mi sovrasta. A questa forma di vita do nome Pazienza. Fisso al suo unico posto, svetta fiero e punta al cielo. Decido di sedermi e poggio la mia schiena sul suo tronco. Una scheggia mi punge ed entra in una spalla, solo ora scopro di essere nuda. Nuda e con un paio di scarpe in mano.

Seduta all’ombra di Pazienza, sorrido del mio stato. Sorrido e chiudo gli occhi desiderando di dormire.

  

  

9 del mese

 

Cercare un appiglio per andare e trovarne mille per restare. Avere dentro di te due forze contrastanti che si combattono e che non sai gestire è una paralisi. Sei immobile, e fatichi a capire le differenti ragioni. Mentre una forza adula la tua pigrizia, l’altra prospetta novità. Difficile con questa battaglia in atto concentrarsi sui reali bisogni, su quello che voglio, aspiro, desidero.

Questo vociare mette a dura prova la mia ragione. Tutto sommato stare ferma è piacevole. Questa posizione è all’apparenza la più semplice, la più facile. Resto  in  un punto. Sparisco.

Ecco il punto: sparisco. Divento inesistente, invece io voglio esistere. Trovare forza e coraggio per essere. Riempire di futuro il mio giorno, dopo una notte insonne, è arduo ma se ci riesco è come guardare in faccia la bellezza. La bellezza del gesto, la devozione alla scoperta, all’avventura.

 

Risalire sui miei piedi è stata dura, ma alla fine l’ode alla pigrizia è stata scartata in nome della favola della scoperta.

A malincuore si fanno le scelte, anche le più banali. Si lascia sempre una via, una destinazione, insieme alla ricchezza e alla complessità di cui è composta, per un’altra via un’altra destinazione. La vita è un bivio costante. E i rimpianti con gli errori stanno in agguato, pronti a far pesare la tua decisione.

Oggi però vado. Ho deciso. La novità mi aspetta.

Scarpe in spalle, piedi riposati, animo aperto a ogni evoluzione, sorriso dell’anima, capelli arruffati, dolore alla spalla, fame di scoperta, vado a godere di questo nuovo giorno.

Ho detto “sorriso dell’anima”, perché ora l’anima è quieta, dopo la guerra tra il si e il no, tra il vado e il resto. A lei non interessa la lotta, lei dà valore alla decisione, a prescindere da quale essa sia, è il tentennamento a farle male. Il dubbio continuo, reiterato, la impoverisce. L’anima ha bisogno di certezze, altrimenti mette in dubbio se stessa.

Ma ora è tempo di andare.

Metto nel sacco delle non cose, pensieri positivi, voglia di fare e il desiderio di amare. E mi sfugge il momento in cui questo desiderio è nato, mi sorprende che arrivi tanto improvviso e impavido. Amare.

Voglio capire cos’è amare. Dove porta amare. Devo capire per poter amare. O forse devo solo amare. Adesso però vado, vestita di nuova armonia, leggera come seta fine, delicata e azzurra. Sono azzurra e fatta di aria, sono poesia in movimento. Scorro simile a un fiume calmo. Vado senza fretta. Vado a godere del giorno.

 

 

9 di un altro mese

 

Una bolla di parole, di aliti urlati, sommessi, morenti, nascenti, usignoli umani, ragli di asini bipedi, pianti pianti pianti, pianti nascosti mascherati di arrogante paura.

La fragilità di un’idea è un venticello che si insinua tra i capelli e si perde. La fragilità del corpo è l’inghippo del viaggio, la sfida del sogno nato nel tempo e che si smarrisce nel tempo. Un orizzonte a spirale in cui si sale e scende. Il rischio è assente, perché non gestibile.

Avrei preferito la monotonia del cerchio. Mi sarei sentita al sicuro. La spirale mi crea tensione. Parole. Parole. Parole necessarie più dell’opportunità della sopravvivenza. Parole di altri, in sequenze inaccessibili. Parole che partono e arrivano e ripartono. Parole che si calano nei raggi fluidi della luna e vivificano ogni frase di magia.

 

Io ho sempre le scarpe sulle spalle e un cuore nel petto, che un giorno sarà pesato.

 

 

 

 

Opera "Il mio amuleto è il cuore"

Racconto:  La Dedica

 

Perché lei pensava che fosse andato con un’altra donna? Perché si arrovellava in questo dubbio quasi quotidiano? Temeva di avere ragione, quasi voleva avere ragione per dire: Lo sapevo, avevo ragione a non fidarmi.

Eppure teneva per sé ogni dubbio, ogni macigno che spingeva e si insinuava tra stomaco e cuore. Stava zitta. Lo osservava e stava zitta. Lo accoglieva e si lasciava accogliere. Beveva dalle sue labbra le parole d’amore, ricambiava l’amore con intensità. Eppure  dubitava.

C’era qualcosa di frenato tra le pieghe del sorriso del suo uomo, oggi.

L’aria fin troppo serena.

In tv l’orrore andava su ogni canale. Guerre dichiarate o meno che seminavano tragedie. Povertà dilagante. Ogni disprezzo per l’umana condizione, passava regolarmente dallo schermo.

Daniela faceva gruzzoli con i suoi sentimenti, dedicava rabbia dolore e impotenza ai dolori dell’umanità, amore e gelosia a Domenico. Della torta, alcuni spicchi erano per la fede in un non ben precisato dio e di gratitudine e gioia per le giornate fredde e piovose trascorse sotto le coperte.

Stavano insieme da due anni, ma continuavano a vivere ognuno nella propria casa.

Se a Daniela piaceva leggere, non si poteva dire lo stesso di Domenico. Lei divorava libri su libri, a lui bastava non perdere un rigo del quotidiano sportivo, alla pagina della squadra del cuore.

C’era qualcosa di diverso, oggi a casa di lui. Pochi libri. Sicuramente i soliti, sparuti e sparpagliati tra DVD e oggetti vari in quella libreria quasi vuota.

Eccolo. Piccolo dorso bianco. Quasi invisibile. Domenico intanto prepara il caffè. Ha voglia di uscire a fare un giro sul lungomare.

Daniela tira fuori quel libricino, nuovo arrivato dal titolo a dir poco dispettoso: Fedele all’amore.

Ora lei ha il cuore che le pare voglia uscire dal petto. Fisicamente saltare fuori.

Domenico le sta per servire il caffè. Lei alza la copertina e sul foglio di guardia, tagliente come un pugnale, la dedica: Preferisco le lenzuola rosse!

E quel nome di donna…

La tazzina, appena passata dalla mano di lui in quella di lei, si schianta con il suo liquido scuro sulla testa di Domenico.

La porta si apre per subito richiudersi dietro le sue spalle.

 

Il mare la accoglie calmo, sapiente di tempo e storie di gente, su un bagnasciuga morbido dove abbandonare ogni tempesta e ogni lacrima.